Viola, dorati, nero inferno,
tutti vi ho amati
generosi grappoli della mia giovinezza;
non posso pensare alla vita gaia
se non a voi.
Chicchi tondi, sodi come seni di giovinette,
oblunghi come quelli impudichi di donne fiorite
che allattavano al sole dorato dei balconi
miraggi arditi della nostra adolescenza inquieta;
mi ricordate una stagione felice
che non c’è più.
E se goloso assaporo i vostri umori
torno a rivedere le loro gambe impudiche
affondate dentro le bocche dei tini
superbamente allegre,
a spremere con le vesti alzate fino alla magica fonte
il nettare divino dalle vostre intrecciate ghirlande.
Oh, dolorosa passione
quali succhi stillanti
inebriavano di mille colori e trame
le bianche carni al mio sguardo estasiato!
Oh, incantate malizie
oh, assetata vita che prorompe,
quali insaziate arsure hanno placato
i vostri spruzzi sanguigni!
Scendevano propiziatori e grati
come doni di un dio benigno elargiti alla terra.
Dove siete finiti chicchi asprigni delle Fratte,
vi sgranavo come un sacro rosario
con bocca ingorda.
Nulla ho dimenticato
e ancora oggi vi amo con giovanile baldanza;
e quando verso nella mia coppa l’oro della vostra spuma,
all’ombra di un meriggio infuocato,
alla mia casa giungono da lontano i canti dei falciatori,
e le spighe danzano al lieve vento della marina.
E se l’impeto di un rosso esplode
– segno di antica passione –
nessuna vita manca alla mia festa.
Le sento in processione venire e disporsi là
attorno alla mia mensa ordinati
come mistici apostoli pronti per il rito:
e allora spezzo il pane e passo il calice buono
e la morte scompare e la menzogna e il sangue…
Nulla più di te
mio fedele compagno, mio benedetto complice,
mi riporta alla sacralità della mensa, alla terra dell’uomo,
anche a quello più abietto,
che rinserrato all’angolo oscuro della bettola mi sorride,
mentre stasera alzo il bicchiere e brindo
alla mia desolata vita
ed alla sua.
Angelo Gaccione, Milano (2000)