Un intellettuale contro il potere di Angelo Gaccione Per meglio inquadrare la virulenta battaglia civile e culturale ingaggiata contro i vari poteri dominanti della nazione da parte di uno scrittore irregolare (corsaro) come Pier Paolo Pasolini, occorre partire da alcune date ed eventi cruciali della recente storia italiana: 12 dicembre 1969, strage di piazza Fontana a Milano e tentativo di golpe; 22 luglio 1970, carica esplosiva sui binari del Treno del Sole a Gioia Tauro ad opera di neofascisti, ’ndrangheta e ambienti militari; 26 settembre 1970, strage di 5 anarchici calabresi a Ferentino. Per chi avesse poca memoria di questi ultimi eventi, diciamo subito che sull’attentato al treno a Gioia Tauro, erano stati proprio gli anarchici calabresi (Gianni Aricò, 22 anni, di Reggio Calabria; Annalise Borth, 18 anni, tedesca, moglie di Aricò; Angelo Casile, 20 anni e Franco Scordo, 18 anni, anche loro di Reggio Calabria; Luigi Lo Celso, 26 anni, di Cosenza) a fare una controinchiesta e a predisporre un dossier ben documentato da consegnare alla redazione di Roma, del settimanale anarchico “Umanità Nova” e all’avvocato Edoardo Di Giovanni, uno degli estensori del libro collettivo La strage di stato1 .
La strage di cui furono vittime i 5 anarchici della mia regione (uno della mia stessa città di nascita), procurò provvidenzialmente la sparizione dei loro documenti e impedì che arrivassero a Roma2 .
La strategia stragista del potere non si interromperà neppure negli anni successi, e nel 1974 ben due carneficine insanguineranno Brescia e San Benedetto Val di Sambro (Bologna), gettando in un’atmosfera cupa e livida l’intera nazione. È nel clima cupo e stragista di quello stesso 1974 che matura l’indignazione viscerale di Pasolini. Con un memorabile articolo apparso il 14 novembre sul quotidiano milanese “Corriere della Sera” dal titolo “Che cos’è questo golpe?”3 , Pier Paolo Pasolini, sicuramente lo scrittore italiano più noto del momento sul piano internazionale, lancia il suo “j’accuse” all’intera classe politica italiana e al suo establishment.
È lo scritto più radicale e tagliente che uno scrittore super celebre, appartenente di fatto all’élite intellettuale della cultura italiana, abbia mai concepito negli anni Settanta e osato pubblicare su un quotidiano moderato e filo governativo come questo. Vediamone uno stralcio significativo.
“Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine a criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei 2 personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere […]”.
Per trovare una radicalità così accentuata, bisogna sfogliare gli organi di stampa della sinistra extraparlamentare marxista o quelli anarchici. Naturalmente prima dell’atto di accusa di Pasolini, c’erano state controinchieste pubblicate in volumi come la citata La strage di stato presso gli editori Samonà e Savelli (giugno del 1970) e come Pinelli una finestra sulla strage di Camilla Cederna, uscito da Feltrinelli l’anno successivo, ma nessuno scrittore o letterato aveva preso una posizione pubblica così decisa e perentoria come il poeta bolognese-friulano. Possiamo immaginarci le facce dei lettori perbenisti del “Corriere”, dei suoi proprietari, dei redattori responsabili, degli uomini politici dell’area moderata, dei vertici del Pci, degli intellettuali pavidi e opportunisti, e dell’intero corpus di potere della nazione. Un terremoto.
Non che queste idee fossero nuove o originali, ma nessuno, in ambito letterario ufficiale, le aveva espresse con tale lucidità, coraggio, consapevolezza. Il monito agli ambienti della cultura disimpegnati e indifferenti è fortissimo: “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore”. È nell’essenza stessa di questo mestiere, dunque, che deve risiedere la consapevolezza, la ricerca dei fatti e la voglia di sapere per prendere posizione, per stare dalla parte della verità e di chi non ha voce, come aveva scritto Camus. Sempre Camus ha scritto che per agire l’uomo deve parlare; e chi ha la parola nelle società moderne se non l’intellettuale? È lui che con la sua parola può riempire lo spazio pubblico, può renderlo vivo, guardingo, accorto, contro le malefatte del potere. Non è altro che questo che intende segnalare Pasolini ai suoi interlocutori quando scrive: “Tutto questo fa parte del mio mestiere”. E assumendosi in prima persona questo ruolo di sentinella vigile contro le trame barbare del potere, contro le mutazioni antropologiche, il consumismo empio, le ferite al paesaggio, il pericolo dell’omologazione linguistica e comportamentale, le devastazioni del territorio, l’edonismo piccolo borghese che tenta di livellare i ceti e le classi riducendo gli individui ad un’unica massa indistinta di consumatori, egli rimette ancora una volta al centro il ruolo importante della critica intellettuale, e conferisce nobiltà al ruolo dello scrittore. Un vero scrittore, un intellettuale, non può abdicare a questo suo ruolo primario. Deve assumersene l’onere, anche a costo di rischiare la solitudine, il dileggio, l’incomprensione e spesso la condanna.
Nel percorso accidentato di critico sociale e politico, Pasolini sperimenterà sulla sua persona tutte queste condizioni qui enumerate. Sarà avversato, frainteso, insultato, dileggiato, deriso, perseguito, lasciato solo. E non solamente dai suoi avversari, ma anche e soprattutto dai suoi sodali di penna, dai suoi amici intellettuali, dagli ambienti comunisti e del Pci a cui resterà sempre legato, nonostante la sua avversione del potere, (di tutti i poteri), il suo anticonformismo, la libertà di scelte, la sua radicalità intellettuale, ne facciano più uno spirito anarchico che un osservante marxista. Chi va a rileggersi gli articoli contenuti in Scritti corsari e Lettere luterane, rimarrà volta a volta sorpreso delle sue prese di posizioni, delle battaglie che mette al centro della sua riflessione, del sostegno incondizionato quando ne è intimamente convinto, e dell’altrettanta incondizionata avversione quando la sua visione fortemente umanistica (nel senso profondo di umano, di umanità) 3 ne scorge i pericoli che vi sono insiti. Sarà così sul referendum per il divorzio e sarà così sulla drammatica scelta dell’aborto; sarà così sulla contestazione giovanile e sarà così sulla retorica dell’antifascismo; sarà così sulla scomparsa del mondo contadino e lo sarà sulla funzione deleteria della televisione che accusa di genocidio culturale; sarà così sull’invadenza pervasiva del neocapitalismo, dell’industrializzazione selvaggia e sull’infatuazione acritica del concetto di sviluppo e progresso. Sono prese di posizioni senza tentennamenti, manichee, perentorie, dovute ad una onestà intellettuale fuori del comune, ad un sentire profondo, mai superficiale o banale e che obbligano a interrogarsi, a collocarsi da un’altra prospettiva. Si può essere in disaccordo con alcune delle sue tesi, ma non è possibile cavarsela a buon mercato e senza fare i conti con le ragioni che le motivano. I suoi concetti aprono ad altre visioni, fanno germinare un’altra infinità di concetti: quello che lui afferma o difende caparbiamente, si è sostanziato in lui, prima che come dato culturale o intellettuale, come sentire carnale, fisico, ontologicamente biologico. Chi lo ha criticato o avversato, non si è mai posto sul terreno vero su cui avrebbe dovuto misurarsi; ha alterato la scena dello scontro, falsificato l’arena dell’agone, e lo ha fatalmente frainteso. Quanto alle contraddizioni di uno scrittore che ha osato scrivere parole come queste : “ (…) quanto a me sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola” 4 , io sono disposto a perdonare tutto.
Il potere nelle sue varie stratificazioni si configura come omertoso; di questo Pasolini è consapevole. Ma lo sono anche quei corpi che gli sono più contigui: giornalisti e partiti politici di sinistra. Pasolini non fa sconti né alla stampa, né agli alti dirigenti del Pci. “ […]
i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno -come probabilmente hanno- prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpes e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono -a differenza di quanto farebbe un intellettuale- verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario”.
A questo punto il compito non può che trasferirsi all’intellettuale libero, “non funzionario”, non compromesso con la pratica del potere e che dunque, non ha nulla da perdere. Ma proprio perché non compromesso col potere egli è impossibilitato a conoscere i fatti, gli intrighi. Per poterne venire a conoscenza dovrebbe rinunciare a questa distanza e compromettersi con esso. Ma a Pasolini questa ipotesi ripugna, perché il coraggio dell’intellettuale libero e non compromesso, gli deriva proprio da questa separatezza. “A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi -proprio per il modo in cui è fatto- dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi”. 4 Parlare, fare i nomi e non avere niente da perdere: ecco cosa spaventa il potere. Potere che, come aveva scritto con spavalda impudenza Giulio Andreotti, in un articolo di risposta sullo stesso quotidiano per replicare alle accuse dello scrittore contro la Democrazia Cristiana, “ha osato oltre ogni limite”. In quell’articolo le frasi di Andreotti sulla gestione del potere hanno un suono sinistro e inquietante: “…quando il potere ha osato oltre ogni limite, non lo si può mutare, bisogna accettarlo così com’è” (il corsivo è mio). Se dunque il potere si è spinto “oltre ogni limite” compiendo qualcosa di innominabile (le stragi), ecco che processarlo pubblicamente diviene una necessità inderogabile, prima che un obbligo morale.
È così che con il durissimo scritto del 24 agosto 1975 intitolato “Processo”, dalle colonne del quotidiano milanese, Pasolini chiede di avviare un vero e proprio processo pubblico al partito della Democrazia Cristiana e ai suoi dirigenti. Il terremoto iniziato con lo scritto “Il romanzo delle stragi”, troverà il suo culmine con questo titolato “Processo”5 e che così esordisce: “Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti, come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell’esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. […] L’immagine dei potenti democristiani ammanettati tra i carabinieri è un’immagine su cui riflettere seriamente”. Tutto quello che Pasolini scrive in quella spietata requisitoria un paio di mesi prima di essere massacrato sul lido di Ostia, e precisamente il 2 novembre, è una sfida aperta a notabili, golpisti, mafiosi, nazifascisti, corpi oscuri e traditori della Repubblica, partiti, giornalisti, Cia, governo americano, industriali, insomma le varie componenti (e forme) in cui il potere si stratifica, per ribadire la sua anarchica irriducibile inimicizia di scrittore e intellettuale non servile e che solo una stampa corriva e un’intellettualità prona, non ha voluto vedere come quelle parole e quei concetti, avessero messo seriamente e definitivamente in pericolo la vita dello scrittore, e che dunque necessitava di un sostegno pubblico incondizionato. Sostegno che come si può vedere leggendo gli interi scritti dello scrittore apparsi sia sul “Corriere” che su vari altri organi di stampa (rimando sempre ai due libri citati), non solo non c’è stato, ma, a parte rarissime eccezioni, da quegli stessi ambienti ha dovuto subire il linciaggio personale, e l’irrisione superficiale alle tesi che andava sostenendo. La lettera aperta ai giornalisti del quotidiano torinese “La Stampa” che si interrogavano stupiti a proposito del Processo pasoliniano al potere, apparsa sul “Corriere” del 28 settembre, nella sua scansione elencatoria non permette alibi di sorta. Tutto ciò che vi è richiesto a nome dei cittadini italiani, suona come la requisitoria di un tribunale popolare che non ammette reticenze ed omissioni. 5 […]
I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali, cittadini di seconda qualità. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la «massa», dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l’unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente). I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai «cultura» è stata più accentratrice che la «cultura» di questi dieci anni) i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso”.
E ancora:
“Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il progetto della «strategia della tensione» (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente).
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna”.
Il potere è inchiodato alle proprie responsabilità e non è permesso ai suoi apparati, ai partiti che hanno tenuto bordone e a quelli che stavano all’opposizione ma non hanno sufficientemente vigilato e doverosamente parlato, di ritenersi immuni. Toccava loro formulare queste richieste e pretendere la verità, ma non l’hanno fatto.
“L’inchiesta sui golpe (Tamburino, Vitalone…), l’inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti neofascisti… Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimitero? È spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi processi, una volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al Processo di cui parlo io”. E anche nei confronti della Magistratura i grandi organi di informazione si rivelano subalterni e reticenti. 6 “Ma, mentre contro gli uomini politici, tutti noi, cari colleghi della «Stampa», abbiamo il coraggio di parlare, a proposito dei Magistrati tutti stiamo zitti, civicamente e seriamente zitti. Perché?”. Ritorna l’obbligo morale della parola, quella parola che non può essere delegata ad un uomo solo. La solitudine che lo accompagna è espressa in più di un passaggio nella stesura de “Il Processo”: “Sono solo, in mezzo alla campagna … Qui non ho niente da perdere…”. E ancora: “Ora (o almeno così sembra a un intellettuale solo in mezzo a un bosco)”.
Questo Processo non può essere lasciato a un uomo solo: “Ma devo farlo solo io, in mezzo a un bosco di querce? Questa volta non mi va di essere ignorato, snobbato, lasciato solo al mio monologo…” e indica a chiusura dello scritto i nomi di quanti quel processo dovrebbero giuridicamente formalizzare. Con Pasolini e le sue battaglie, l’intellettuale torna ad essere quello che era stato nei momenti più alti della sua tradizione critica, e che il neocapitalismo trionfante ha reso subalterno. Il suo rifiuto, la sua critica radicale al potere, il suo no pronunciato con fermezza, è lo stesso rifiuto che aveva fatto dire al vescovo di Münster, Clemens August von Galen, nei confronti del nazismo: “Seppur tutti, io no!”. Pasolini con i suoi rifiuti, con la sua collisione col potere, con la sua parola libera pronunciata in favore di un’intera comunità, ha reso grande la sua missione di scrittore. Come ebbe a dire Albert Camus in occasione dell’attribuzione del premio Nobel, “Uno scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà”. Pasolini ha tenuto fede ad entrambi questi impegni. [Milano, 2 gennaio, 2015]
Note
1AA. VV. La strage di stato. Controinchiesta. Samonà e Savelli editori, 1970.
2 Per questa strage si veda Fabio Cuzzola, Cinque anarchici del Sud. Una storia negata, Città del Sole Edizioni, 2011.
3 Poi col titolo “Il romanzo delle stragi” corretto da Pasolini stesso e pubblicato nel volume Scritti corsari, Ed. Garzanti, 1975.
4 Sul “Corriere della Sera” del 14 novembre 1974, ora in Scritti corsari con il titolo “L’articolo delle lucciole”.
5 Il testo si trova ora in Lettere luterane.
[Pubblicato sulla prima pagina di “Odissea” in Rete in data 2 Novembre 2015] www.libertariam.blogspot.it