Se vogliamo entrare davvero in sintonia con il libro di Aldo Colonnello dedicato alla memoria di Alda Merini (Alda Merini la poetessa dei Navigli, Ed. Meravigli, Pagg. 146 € 15,00), dobbiamo accettarlo per quello che realmente è: una lunga, affettuosa e appassionata lettera d’amore. Chi si immergerà nelle sue pagine si accorgerà subito che quella di Colonnello, nei confronti della poetessa, (ma direi anche della donna), non è stata la semplice frequentazione di un ammiratore affascinato dai suoi versi, o di un amico premuroso che, in quanto tale, c’è sempre, anche nei momenti più difficili, con l’attenzione, la sensibilità e la discrezione che una vera amicizia comporta. Tutto questo c’è, ovviamente, ma la sua è stata qualcosa in più: la devozione quasi filiale (e mai venuta meno) verso una creatura che si ritiene speciale, e che, proprio in virtù di quella devozione, si è disposti a perdonarle ogni cosa: capricci, impuntature, cambi d’umore, incomprensioni, scatti imprevedibili, umiliazioni, scelte discutibili, modo di vivere, perché accecati dal nostro affetto. Del resto, chi ha avuto modo di conoscere Alda Merini, sa quanto fosse spigoloso, indipendente e per nulla reverenziale il suo carattere, e come fosse altresì generosa, umana e disponibile; qualità che non sono molto diffuse negli ambienti letterari milanesi, anzi. Accettarla com’era o tenersene alla larga: non c’erano mezze misure possibili. Ed è anche per questo che io giudico stoica la resistenza di Colonnello, e straordinaria la sua fedeltà all’amicizia. Scrive in un passaggio del suo libro: “La Poetessa (Colonnello usa rigidamente la maiuscola) non era certamente una santa, credo di poter dire non fosse neppure umile, anzi era fortemente consapevole della propria limpida genialità, spesso la faceva pesare, annichilendo il malcapitato di turno o imponendo una personalità carismatica in contesti pubblici”. È tutto perfettamente vero, ma aveva un pregio raro: non fingeva nei rapporti umani, era rimasta autentica come la sua anima popolare, la lingua dialettale milanese che continuava a parlare, il suo bisogno di poco, e non si era snaturata e imborghesita come il quartiere divenuto finto e mercificato fino al midollo. Poeta lo era in ogni fibra, naturaliter; e quello che sentiva lo cacciava fuori quasi sempre nella maniera più immediata. Da anni non prendeva appunti e non scriveva; preferiva dettare agli amici, per lo più al telefono e nelle ore e nei momenti più diversi, notti comprese. Potevano venir fuori meraviglie, da questa pratica istantanea e prettamente orale, e potevano venir fuori cose non del tutto riuscite e che sarebbe stato meglio non mettere in circolazione. Ma fra i suoi numerosi amici ed estimatori ce n’erano anche di “disinvolti” che di scrupoli se ne facevano ben pochi. Ma non è questo il luogo per aprire un contenzioso.
Di tale pratica “dettatoria” avevo beneficiato anch’io in anni diversi: nel 2001 per i due testi Silenzio e Favola, dettatimi al telefono il 10 gennaio di quell’anno e pubblicati nel prezioso volume collettivo “Le luci del Bauhaus” (Ed. Gutenberg); nel 2002 (e precisamente il 4 aprile) per la poesia Milano da me inserita nella ponderosa antologia “Poeti per Milano. Una città in versi” e pubblicata dalla Viennepierre edizioni. Erano passati nove anni dal libretto “Aforismi”, che le avevo pubblicato con una mia nota introduttiva nel 1992 nelle Edizioni Nuove Scritture. Pubblicammo quel libretto in due diverse ristampe cambiando la copertina (la prima volta con un’opera di Alberto Casiraghi, la seconda con una di Salvatore Carbone); Alda non si era fino ad allora cimentata con questa forma di scrittura, divenuta poi con gli anni piuttosto frequente. Nel 2006 mi salvò, letteralmente, da una incresciosa svista. Dovevamo andare in stampa con il numero 2 del IV anno del giornale “Odissea”, quello di dicembre, quando l’impaginatore si accorse, all’ultimo momento, che mancava la frase da inserire accanto alla testata. A ridosso del Natale non era cosa facile interpellare collaboratori e amici scrittori; e poi non tutti scrivevano aforismi e avevano pratica con il genere. Mi ricordai di Alda e le telefonai: “Sono nei guai” le dissi, mi bastano anche due sole righe, dobbiamo andare in stampa in meno di un’ora”. “Hai la penna?” mi chiese all’istante, “scrivi: Ricordati che due sole righe possono condannare a morte un uomo”. La profondità della frase e l’immediatezza con cui l’aveva formulata, mi lasciarono di stucco. Ero salvo. Telefonai Fulvio Chiodini in tipografia e potemmo andare in stampa.
Non c’è dubbio che da questo rapporto Colonnello (avrete certamente notato che si chiama incredibilmente Aldo: se non è questo uno scherzo del destino…) è uscito più ricco e cambiato. Egli ha potuto salvare per noi la memoria di un tratto di vita della poetessa; registrare i suoi incontri e quelli avuti dall’autrice con personalità fra le più varie; la partecipazione ad eventi spesso da lui sollecitati e voluti; gli aneddoti, i versi che gli dettava a voce e che lui diligentemente trascriveva, e dunque dobbiamo essergliene grati. Come grati dobbiamo essere alle Edizioni Meravigli che hanno pubblicato un libro che ci illumina su molti aspetti privati di una poetessa a cui abbiamo voluto bene; ricco anche di foto, in gran parte scattate da un altro amico intimo della poetessa, Giuliano Grittini, comprese quelle in cui Alda riceve gli ospiti distesa sul letto come una matrona romana. E quelle delle pareti della sua incredibile casa, zeppe di appunti, numeri telefonici, graffiti e disegni fra i più vari.